Vincenzo Martines

La mia storia

Capitolo II

Dal 1951 al 1963

Il 1951 iniziò con una bella sorpresa: avevamo la macchina ! Con una scusa che non ricordo papà ci pregò di scendere in strada e ci trovammo di fronte ad una giardinetta di legno della FIAT che odorava di nuovo, un giretto per Catania e la scoperta di questo nuovo oggetto di divertimento, ma anche di lavoro: gli strumenti di bordo, il contachilometri,le marce, le frecce, il bagagliaio, il motore,volevamo sapere tutto e per molti giorni fu il solo argomento di conversazione.

Mio fratello Giulio, il più piccolo, ed io orgogliosi della nostra fiat 500 Giardinetta

I primi viaggi furono a Caltagirone distante 70 chilometri da Catania e città di origine di mia nonna Rosina. In un palazzetto di via Roma 74 abitavano le sorelle della nonna: la zia Maria con il marito Totò e la zia Lucia.

La casa era piena di quadri tutti dipinti dai nostri antenati, i Vaccaro, di professione pittori e che nell'800 avevano riempito con pale d'altare, ritratti e pitture di soggetto classico Chiese e palazzi patrizi della Sicilia; mi avvicinai così all'arte sotto la guida della zia Maria (nata nel 1893) che non aveva titoli di studio (a quel tempo alle signorine l'istruzione era impartita da maestre che venivano a casa) ma essendo stata a contatto con i figli degli artisti, anche loro pittori, aveva acquisito una certa competenza.

A sinistra, ritratto di Giuseppe Vaccaro (1832) ad opera del fratello Francesco,
al centro autoritratto dello stesso Francesco (1862),
a destra un ritratto di zia Maria Vaccaro dipinto da Mario Vaccaro, figlio di Francesco.

Dalle zie scoprivamo anche nuove pietanze (mamma ci aveva abituati a un menù piuttosto standard e un po' nordico che comprendeva di massima brodino, cotoletta e palacinche- specie di crépe con ripieno di marmellata) si iniziava con uno squisito piatto di pasta in cui si riconosceva il sapore delle olive, dei capperi, del basilico e del pecorino, seguiva poi lo spezzatino, ma noi bambini aspettavamo il dolce: una torta con due strati di pan di Spagna e due di crema di ricotta, e un'impercettibile sapore di un liquore dolce. Accettavamo invece con un po' di sforzo la marmellata di mele cotogne, lasciata solidificare su formelle di ceramica dagli stampi diversi: pesci, fiori, figure geometriche, e relativamente gradita era anche la mostarda.

Ascoltavo con attenzione i discorsi dei grandi sul raccolto nelle campagne del calatino e le difficoltà dei contadini nelle non infrequenti stagioni di grande siccità Avvertivo il senso di comprensione degli zii verso chi lavorava con fatica le loro terre, e che spesso si coniugava con un sostegno economico.

Un altro tema di discussione, sempre espresso in termini assai pacati, era quello sulla attività di un partito, oggi scomparso, la Democrazia Cristiana; era un argomento ovvio in quella casa e per diversi motivi: gli zii erano religiosissimi (e se non fosse per l'amore ed il rispetto che avevo e devo verso di loro avrei usato il termine di bigotti): non mancavano mai alla prima S. Messa del mattino, ai primi venerdì del mese,alle novene, all'attività della San Vincenzo, e fu a casa loro che ebbi modo di vedere e leggere per la prima volta "L' Osservatore Romano ".

Don Luigi Sturzo

Un altro motivo era la conoscenza e l'antica amicizia che li legava a don Sturzo, continuata anche dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, dopo la guerra; lo zio Totò quando andava a Roma non mancava mai di andare a visitarlo nel Convento di suore di via Mondovì dove viveva. . Lo zio Totò poi coerentemente ai suoi principi ( e con un po' di rammarico dei parenti) volle scrivere nelle disposizioni testamentarie che alla morte le sue campagne andassero alla Diocesi di Caltagirone, non solo perché i loro proventi potessero essere utilizzati per i poveri, ma perché riteneva che dovessero ritornare alla Chiesa come riparazione alle Leggi eversive ( un aggettivo quest'ultimo che mi piace molto) del 1866, in cui si disponeva che i beni degli Ordini religiosi fossero incamerati dallo Stato. Si prendeva la via del ritorno carichi di frutta, formaggi e delle odiate marmellate di cotogne e mostarde, a volte anche se raramente con qualche disegno o quadretto dei nostri pittori.

Anche se le pratiche religiose all'Istituto Maria Ausiliatrice erano prevalenti durante l'anno scolastico, c'erano anche i momenti dedicati al divertimento: il carnevale del 1952 coinvolse tutte le scolaresche con spettacoli teatrali e molta musica, fu una delle poche volte che indossai una maschera e scelsi quella di un gentiluomo del 1700 con tanto di parrucca, ricordo ancora con fastidio le estenuanti prove dalla sarta, in ogni modo riuscii in compagnia della mia dama ad abbozzare nel teatrino ricolmo dei genitori dei debuttanti un accenno ad una danza coeva ai costumi il minuetto e financo il protocollare inchino e il baciamano.

La recita di Carnevale del 1952
Da bravo cavaliere, accompagno la mia bella dama


La classe elementare del 1952 dell'Istituto Maria Ausiliatrice di Catania
Io sono in prima fila, il secondo da destra

L'anno scolastico si concluse con la consueta premiazione e la foto della classe con al centro e in prima fila la Madre superiora e la nostra insegnante, e con l'arrivo dell'estate era giunto il momento di una vacanza che si decise di fare all'estero considerata l'innata passione di mio padre di conoscere il mondo. Era un ottimo programmatore, a volte persino meticoloso, nulla era lasciato al caso, prima di partire conoscevamo tutte le tappe del viaggio, il numero esatto dei chilometri da percorrere, gli orari presumibili di arrivo, gli alberghi dove avremmo dormito, i luoghi da vedere.

Alla parte culturale pensava mamma, ci anticipava la storia della Nazione che avremmo visitato, le sue tradizioni, i suoi costumi. Partimmo il 1° di agosto, la meta era Vienna. Il viaggio di andata durò 5 giorni, allora non vi erano autostrade ! e io e mio fratello Giulio guardavamo scorrere paesaggi sempre nuovi e sentivamo persone che parlavano dialetti differenti e come tutti i bambini li confrontavamo con la nostra Catania di cui eravamo orgogliosi, ma mio padre quando passavamo da una regione all'altra diceva sempre: la forte terra di Calabria, la forte terra della Campania e così via, un insegnamento di vita prezioso.

Non era certo l'Austria Felix quella che visitammo, erano passati pochi anni dalla fine della guerra, e i segni si scorgevano anche nell'abbigliamento dimesso delle persone e persino dai colori degli abiti sempre scuri e grigi e a Vienna il ponte sul Danubio dalla parte dell'Est era presidiato dai sovietici. L'Albergo il Kaiserin Elisabeth, in pieno centro, era elegante ed austero.

La mattina andavamo a fare la prima colazione nella sala da pranzo e lì accaddero due episodi che non ho mai dimenticato, io e mio fratello Giulio prendevamo il latte con una cannuccia, per noi bambini una novità divertente, ma una mattina non ce le portarono e mamma invece di chiamare la cameriera, dopo una sommaria "lezione di tedesco" ci mise alla prova, e mi invitò ad andare dalla fraulein; ma l'impresa non ebbe fortuna, il mio tedesco evidentemente non era perfetto, e tornai un po' vergognoso con delle zollette di zucchero!

Il secondo incidente avvenne poco dopo, accanto alla sala da pranzo c'era una sala lettura con le pareti affrescate e un magnifico ritratto ad olio di Sissi, dove compassati gentiluomini leggevano il giornale, non sapevamo allora che gli italiani all'estero si distinguevano (e forse si distinguono ancora) per due caratteristiche: parlano a voce alta e gesticolano vistosamente, noi bambini cademmo sul primo punto, giocavamo rumorosamente finché un signore con un tono di voce asciutto e deciso pronunciò un raggelante: " Silence !" E questa volta capimmo subito il tedesco!

Cominciammo ad esplorare la citta iniziando dalla Hofburg, il magnifico palazzo imperiale,e poi Shoenbrun,la residenza estiva, e mamma non si stancava di raccontarci di Francesco Giuseppe, della moglie Elisabetta più nota come Sissi, e dell'unico figlio maschio Rodolfo scomparso tragicamente a Mayerling nel 1889.

Ma per noi bambini l'attrazione maggiore era il Prater, il grande giardino di Vienna dove si passeggiava, si ascoltava musica, si beveva la birra, ma su tutto era immanente la Ruota gigante che consentiva di vedere dall'alto la città e i suoi dintorni, anche se non mancavano altre attrazioni come il Tunnel degli orrori dove durante il percorso su un trenino traballante comparivano a ogni curva scene e mostri terrificanti; poi si andava al ristorante: brodino, winerschnizel con kartofen e le favolose torte, compresa la buona sacher.

Al momento di lasciare l'albergo c'era allora l'usanza di applicare su una delle valigie un adesivo con il logo dell'hotel. Non passarono molti anni che le nostre valigie non avevano più posto per questi "attestati di viaggio" !. Al rientro in Italia una delle cose che creava una certa emozione era il passaggio del confine di Stato e quindi la dogana, ovviamente portavamo solo ricordini, oggetti di nessun valore, al massimo qualche pacchetto di sigarette, che in Austria costavano di meno, ma il controllo dei bagagli era assai accurato e non vedevamo l'ora che si alzasse la sbarra rossa e bianca.

Al primo paese oltre il confine i miei genitori si fermavano ad un Bar, sorbivano lentamente il buon caffè italiano, e acquistavano un quotidiano nazionale perchè era difficile trovare "La Sicilia", mentre a me toccava il Corriere dei Piccoli che a quel tempo,se non ricordo male, costava 25 lire. Non tornammo direttamente a Catania, papà aveva pianificato un soggiorno di una decina di giorni a Chianciano perché soffriva di calcoli alla colecisti e faceva le cure termali con la speranza di allontanare il giorno dell'operazione.

Andavamo all'Hotel Ariston gestito dal commendatore Orsi che ne era anche proprietario, un uomo apparentemente burbero ma che ci sapeva fare soprattutto nella buona tavola: anche se il menù risentiva delle limitazioni dettate dal fatto che gli ospiti avevano quasi tutti problemi di fegato ( come diceva il noto motto della cittadina: " Chianciano fegato sano" ) per la sua varietà ed abbondanza era molto apprezzato, e penso che diverse volte andasse ben oltre le raccomandazioni dei medici termali.

Verso le 9 ci recavamo alle Terme, muniti di bicchieri ( anche mia madre per imitazione faceva le cure, che non erano sicuramente dannose ma non ebbero alcun effetto preventivo perché in seguito le vennero i calcoli alla colecisti e dovette operarsi) che avevano delle tacche che corrispondevano alla quantità di acqua da bere, e che bisognava riempire più volte, cosa che avveniva alle fonti: un grande locale coperto dove in fondo c'era un lungo bancone dietro il quale una decina di ragazze riempivano i bicchieri, era poi prevista una passeggiata per favorire la diuresi, mentre un'orchestrina suonava canzonette e melodie.

Alle terme fui protagonista di un episodio quasi comico: ascoltavamo la musica insieme ad un amico di famiglia originario di Caltagirone il dottor Giovanni Piazza, Direttore Generale al Ministero della Pubblica Istruzione, e poiché per il commendatore era giunta l'ora della seconda dose mio padre mi pregò di andare alle fonti per riempire il bicchiere. C'erano lunghe code di persone molto avanti con gli anni, che procedevano lentamente, ma nell'ultima fila c'erano solo due o tre persone, la raggiunsi subito e pochi minuti dopo trionfante porgevo educatamente il bicchiere all'autorevole personaggio. Ma dopo il primo sorso mi accorsi che sul suo volto si dipingeva un impercettibile smorfia di disgusto, ero andato nell'unico settore dove si distribuiva " l'acqua santa" che non solo era disgustosa ma aveva anche proprietà purgative!

Nel 1953 nella Chiesa dell'Istituto di Maria Ausiliatrice ricevetti la Cresima da S. E. mons. Luigi Bentivoglio, arcivescovo di Catania, diventando così perfetto cristiano e conclusi la terza elementare per proseguire gli studi all'Istituto salesiano di San Filippo Neri, in via Teatro Greco. Cambiavano molte cose a cominciare dai mezzi di trasporto: la distanza da casa alla Scuola era notevole, circa tre chilometri e così la mattina prendevo l'autobus, il numero 5 che mi sbarcava in via del Plebiscito e in pochi minuti raggiungevo l'Istituto dove alle 8 in punto il "Consigliere" un salesiano con un piglio da sceriffo suonava il campanello, a quel segnale tutti in chiesa per seguire la Santa Messa, poi una breve ricreazione nel cortile,nuovo tocco del campanello,l'inquadramento nelle varie classi e con passo quasi militare arrivavamo nelle aule per seguire le lezioni.

Anche di questo periodo conservo un buon ricordo per il metodo e lo stile degli insegnanti probabilmente più completo di quello degli Istituti Statali, che però avevano il pregio di avere studenti di ogni classe sociale e quindi una palestra di vita meno ovattata. Mi rendo conto che queste valutazioni sono assolutamente generiche perché è convinzione comune che nella Scuola ( come nella vita) è determinante il carisma personale dell'insegnante o del superiore indifferentemente dall'abito civile,militare o talare che indossa.

Quell'anno la meta del nostro viaggio estivo fu la Svizzera, visitammo i cantoni tedeschi e la capitale Berna dove ci aveva incuriosito la fossa degli orsi, animali che vedevamo per la prima volta e che avevano dato il nome alla città. Mamma per prepararci ci aveva fatto sfogliare un vecchio libro dell' 800 illustrato dai celebri artisti Alessandro ed Arturo Calame con incisioni avvincenti come quelli del Dorè, così sognavamo montagne coperte dai boschi e coronate da nevi eterne, cascate d'acqua e torrenti rumoreggianti, tranquilli e azzurri laghi, tenebrosi castelli e naturalmente ci coinvolgeva la storia di Guglielmo Tell, l'eroe nazionale svizzero che nel 1307 ad Altdorf, era stato arrestato per non aver voluto riverire il vessillo imperiale degli Asburgo fissato in cima ad un'asta e sottoposto dal balivo Gessler, governatore dei Cantoni di Schwitz e d'Uri, alla prova della mela posta sulla testa del figlio Gualtiero.

Ma il padre, abilissimo cacciatore,aveva superato la prova, la freccia della sua balestra aveva centrato in pieno il celebre pomo Il gesto secondo la tradizione fu l'inizio della rivolta che portò all'indipendenza della Svizzera dagli Asburgo. E tornando alle splendide montagne alpine della Svizzera, che con immagine poetica alcuni definirono come il primitivo soggiorno dell'anima e quasi paradisi perduti, viene alla mente a questo proposito il celebre dramma del "Guglielmo Tell" di Friedrich Schiller in cui Gualtiero domanda al padre:

"Hannovi paesi, babbo, in cui non ci siano monti?"

E il padre risponde:

"Là,sopra i nostri monti,lungo il corso
de' torrenti salendo,ancor più sopra,
s'arriva alfine ad una gran pianura
ove non più romoreggiando l'acque
spumeggiano, ove lenti e cheti scorrono
i fiumi: quivi può da tutte parti
libero il guardo contemplare il cielo."

Tornammo in Italia con diverse tavolette di cioccolata,la certezza che le mucche svizzere fossero più floride delle nostre e la sensazione di aver visto un paese ordinato, lindo, e forse felice .

Anche il viaggio in Spagna avvenuto nell'estate del 1954 fu preparato meticolosamente, si trattava di andare in una Nazione che ancora risentiva di una terribile, lunga e sanguinosa guerra civile iniziata nel luglio del 1936 e finita nel marzo del 1939. Oltre che del passaporto occorreva munirsi di un visto ma mio padre si fece rilasciare anche una dichiarazione del parroco della nostra chiesa intitolata proprio alla Madonna di Monserrato dove era esplicitata la nostra fede cristiana, suppongo si trattasse di uno scrupolo, ma in quel tempo le autorità franchiste non gradivano certamente persone legate in qualche modo alle ideologie comuniste. Il nostro bravo parroco consegnò inoltre a mio padre una lettera per l'Abate del famoso Monastero benedettino di Montserrat in Catalogna che saremmo andati a trovare e a ossequiare.

Il viaggio non cominciò bene perché in Campania nelle salite in vicinanza del paese di Polla sentimmo odore di bruciato e sollevarsi dal motore un fumo bianco. Ci fermammo e aperto il cofano ci rendemmo conto che il fumo veniva dal tappo del serbatoio del radiatore, mentre la poca acqua rimasta si riversava sulla strada . Qualche centinaio di metri ancora e avremmo fuso il motore! Era un giorno impossibile, il 15 di agosto, ma la fortuna ci aiutò, mio padre fermò un camion che lo portò nel paese vicino, dove l'officina era chiusa; gli venne indicata la casa del meccanico che si rese subito disponibile. La diagnosi fu immediata: una pala del radiatore aveva forato il serbatoio, provocando la fuoriuscita dell'acqua, la sostituzione del pezzo richiese un paio d'ore, il prezzo fu ragionevole, la mancia generosa, e riuscimmo, con grande gioia di mio padre a raggiungere Pompei la destinazione prevista e dove era prenotato l'albergo.

IL viaggio in Spagna del 1954
Mio padre, io e la FIAT Giardinetta di legno

L'indomani a Firenze e il giorno successivo a Nizza, poi la Provenza, i Pirenei e il confine spagnolo. Nonostante le previsioni le formalità alla frontiera furono semplici e sbrigative forse ci agevolava il cognome Martines; mio padre familiarizzò subito con le Guardie Civil che portavano il tipico copricapo e che volentieri si prestarono a farsi fotografare con noi bambini.

Dopo il verde dei Pirenei il paesaggio divenne decisamente triste, brullo e riarso, gli alberi rari, su alcuni grandi massi dal colore immacolato compariva la scritta " mejores no hay " ! (di meglio non puoi avere !) un motto del regime, forse un po' ambivalente. La città di Madrid invece ci sorprese per la sua imponenza: grattacieli, grandi viali, bei monumenti e un confortevole albergo.

Dopo il verde dei Pirenei il paesaggio divenne decisamente triste, brullo e riarso, gli alberi rari, su alcuni grandi massi dal colore immacolato compariva la scritta " mejores no hay " ! (di meglio non puoi avere !) un motto del regime, forse un po' ambivalente. La città di Madrid invece ci sorprese per la sua imponenza: grattacieli, grandi viali, bei monumenti e un confortevole albergo. I quattro giorni di permanenza nella capitale spagnola furono dedicati quasi esclusivamente alla visita di Musei, Chiese ed edifici storici. Particolarmente lunga fu la visita al Museo del Prado (un'intera mattinata!) che in età più matura avrei meglio compreso e seguito con più zelo, ma a 9 anni il mio comportamento indifferente e forse un po' riottoso era parzialmente giustificato. In albergo mi venne un febbrone da cavallo che durò poco più di 24 ore, ma che mi fruttò una intera scatola di soldatini spagnoli,e io suppongo che fu questa la medicina che mi fece guarire così prontamente.

E a proposito di giocattoli ne acquisii poco dopo un altro: avevo appena messo il piede fuori l'Hotel,quando noto sul marciapiede un venditore che tirava con un'unica cordicella due colorati pesci di plastica uno davanti di piccole dimensioni l'altro dietro molto più grande e diceva a voce alta: "Pes grande coma pes nino" finita la frase accadeva quanto detto, con una molla il pesce piccolo veniva ingoiato da quello grande, mia madre non ebbe difficoltà a dare poche pesetas a quell'uomo, e mi chiedo ancora oggi se quel povero venditore fosse pienamente conscio del crudele e reale significato che rappresentava quel giocattolo che portava per le vie di Madrid.

Per vedere la corrida papà aveva pensato di andare ad Alcalà de Henares, città distante circa 30 chilometri dalla Capitale e dove era nato Miguel Cervantes. Un'occasione per mamma per raccontarci per sommi capi il celebre romanzo: "Don Chisciotte e Sancho Panza".

Non avendo potuto prenotare in anticipo i biglietti per la Plaza de Toros, li acquistammo, un po' cari, al mercato nero: quattro posti "sol y ombra" . Uno spettacolo che ho rivisto altre volte ma che non ho mai dimenticato: i picadores che con delle lance pungolano il toro, poi i banderilleros che configgono le banderillas, infine ecco apparire il matador, nella sua luccicante divisa che inizia il duello, quasi una danza con l'animale, l'eccitazione della folla è al massimo, il finale è scontato e il torero è pronto ad immergere l' "estoque" tra le scapole del toro.

Il giorno dopo giungemmo a Toledo e la prima visita riguardò l'Alcazar, la fortezza che durante la guerra civile ospitava l'Accademia Militare di fanteria e che aveva subito un lungo assedio da parte delle truppe repubblicane che avevano catturato il figlio del colonnello Moscardò, Comandante la guarnigione.

In una stanza, lasciata come si presentava all'epoca dei fatti, con i buchi delle pallottole ancora visibili sui muri, vidi il telefono con cui si era svolta la telefonata tra il comandante repubblicano e Moscardò: se non si fosse arreso avrebbero ucciso suo figlio Louis, anzi gli consentirono di parlare con il padre che gli disse "... raccomanda l'anima a Dio e grida viva la Spagna.!.. " e poi al precedente interlocutore con voce che tradiva l'emozione: l'Alcazar non si arrende ! Non conoscevo ancora gli orrori delle guerre civili, ma questo anticipo mi faceva capire che erano cose da evitare.

Il soggiorno a Barcellona fu assai piacevole, una città allegra e per noi bambini il Tibidabo, un parco dei divertimenti che non avremmo voluto lasciare, ma ci aspettava una destinazione ed un'esperienza nuova: Palma di Majorca, che avremmo raggiunto in aereo un mezzo che non avevo mai preso.

L'attesa all'aeroporto fu lunga, vedemmo giungere un grande quadrimotore con le insegne dell' Air France, ma non era il nostro, poi un altro quadrimotore di una compagnia inglese e non era ancora il nostro ed infine sulla pista comparve un trabiccolo un piccolo bimotore dell' Iberia, che in circa un'ora di volo ci portò alla meta; dal finestrino vedevamo uno spettacolo per noi nuovo, il mare, le nubi e Maiorca l' isola più grande delle Baleari, il ritorno invece avvenne per mare; la meta successiva era l'imponente Monastero di Montserrat, arroccato su un monte, dove avremmo conosciuto l'Abate.

Ricordo la lunga e ordinata fila che facemmo prima di giungere alla sua presenza, mio padre si era portato un abito scuro, mia madre per l'occasione indossava una veletta nera, noi bambini invece in calzoncini corti.

Papà aveva preparato un breve discorso in spagnolo che da quando eravamo entrati in Spagna ripeteva spesso in macchina, che fece il suo effetto, perché, dopo aver consegnato la famosa lettera del nostro parroco, l'Abate pronunciò delle parole di benvenuto e volle donarci un libro che narrava la storia dell'Abbazia e una statuetta in bronzo della Madonna di Montserrat che ha la carnagione scura e per questo viene detta comunemente la "virgen moreneta".

E' nota l'espansività del siciliano e segnatamente del catanese che era naturale e particolarmente spiccata in mio padre e questo ha sempre facilitato i rapporti con le persone che incontravamo, nonostante le difficoltà della lingua. Una delle domande che gli spagnoli ci facevano più spesso era se avessimo visto il Santo Padre, e rimanevano delusi della risposta negativa; ma non sarebbe passata una settimana che questa nostra lacuna sarebbe stata colmata perché al ritorno ci fermammo due giorni a Roma e andammo a Castel Gandolfo per assistere alla benedizione domenicale del Papa.

Un evento che mi è difficile dimenticare: stavamo in seconda fila in attesa e appena sul balconcino del Palazzo apostolico apparve la veste bianca di Pio XII i sacerdoti e le suore che stavano davanti a noi si prostrarono all'unisono in ginocchio quasi si fosse trattato di una apparizione; la figura ieratica del Santo Padre e la sua voce stentorea completarono la scena. Un timbro di voce che diversi anni dopo ho risentito nella registrazione dell' appello trasmesso via etere il 24 agosto del 1939, poco prima dell'inizio del II conflitto mondiale, e che iniziava con le famose ed accorate parole di esortazione: " ...Nulla è perduto con la pace ! Tutto può esserlo con la guerra ! .." Quel giorno capii per la prima volta il significato e la forza del termine "carisma"

Tornammo finalmente a casa e il 5 ottobre subito dopo la festa di S. Francesco, Patrono d'Italia, ripresero le Scuole, ed iniziai a frequentare la V elementare.

Al S. Filippo Neri si faceva quasi una gara per servire la S. Messa.del mattino. Quando il celebrante usciva dalla sacrestia per recarsi all'altare era preceduto da 6 chierichetti in tonaca rossa e cotta bianca, i primi quattro portavano un candelabro con una lunga candela accesa e si posizionavano ai lati dell'altare rimanendo immobili,gli altri due invece avevano una funzione più attiva, quello di sinistra interveniva all'offertorio versando il contenuto delle ampolline nel calice che gli porgeva il sacerdote, l'altro suonava il campanello all'elevazione ed è inutile che io dica che quest'ultimo incarico era considerato quello più importante e che persino io riuscivo ad ottenere con una certa fatica.

Ma passando dal sacro al profano devo confessare che a quell'età ero ghiotto di dolci; devo fare risalire questa abitudine alle passeggiate con il nonno che avevano come scopo primario quello di farmi conoscere la storia, l'architettura,,l' arte, i costumi della mia città, ma comprendevano anche un momento di pausa in una delle tante accattivanti pasticcerie presenti nel centro storico.

Un'attività artigiana raffinata quella esistente a Catania che si avvaleva dei tipici prodotti dell'Isola come i fichi, le mandorle, i limoni, le arance, le nocciole e le castagne dell'Etna e che li esprimeva nei rinomati cannoli di ricotta, nella cassata,nei panz erotti ( ripieni di crema, di cioccolata o ricotta) negli iris; o in dolci preparati in determinate festività: così l'agnello di zucchero per Pasqua, le crispelle di riso con il miele per la festa di San Giuseppe, i torroncini e le olivette di S. Agata a febbrajo per la festa della Santa Patrona .

Uno dei negozi più rinomati era la "Pasticceria Svizzera" di Alessandro Caviezel, in via Etnea 202, fondata nel 1905. Un'altra, ancora più antica,era situata in via Mancini, famosa per i " biscotti della monaca" così chiamati perché la titolare, Mara Messina, era stata da giovane "bizzocca" nel Monastero di Santa Chiara di via Garibaldi e in quel luogo aveva imparato a confezionare degli ottimi biscotti col seme di anice. Oltre a questi si vendevano i "cardinali" fatti con mandorla e cucuzzata, la "pignuccata" con pinoli e pistacchio cotti nello zucchero bollente, i "crocchiula" fatti con pasta di mandorla e zucca candita, e tanti altri manicaretti che non posso ovviamente citare in questa sede e che rimando, per gli interessati, ai libri di cucina.

Scriveva Francesco Ferrara nel suo libro "Storia di Catania" (1829) "... Catania è abbellita da un cielo quasi sempre sereno e del più bell'azzurro ..le grandi strade aperte al sole, una primavera anticipata... A questo felice clima, il catanese deve il vigore della sua costituzione, la sua indole romantica, l'acuto suo spirito, il suo talento..."

L'evento più sentito e partecipato a Catania è quello della festa di S. Agata, vergine cristiana che subì il martirio nel 251 d.C. ad opera del proconsole Quinziano governatore della provincia di Catania, essendosi rifiutata di offrire sacrifici agli Dei, come prescriveva un editto dell'imperatore Decio.

Prossimamente pubblicherò il terzo capitolo della mia storia

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